Amore a ultima vista

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di Valdo Vaccaro

 

Non provo né amore né affetto per gli animali, mi sono indifferenti, non esistono nemmeno.

Sono vegetariana solo per vanità.

 

Ciao Valdo,

Mi puoi dire cosa pensi del miele? Parere positivo o negativo?

Grazie del tempo che mi dedichi, ma ho qualcosa che mi rode.

Mi sento infatti tra le peggiori delle tue allieve.

Vorrei le cose comode e facili, e so che ciò non è possibile.

Non ho nemmeno un amore particolare per gli animali.

Voglio essere vegetariana per vanità, per stare bene e invecchiare bene. Non per altri motivi.

Mi manca la cultura e la base.

Mi hai fatto troppi complimenti e so di non meritarmeli affatto.

Ho veramente tanta strada da fare.

 

 

Due parole sul miele. Un doping più sano dello zucchero, ma non per questo più raccomandabile.

 

Anche sul miele si può fare il doppio discorso, di tipo etico e di tipo igienistico, anche se poi il giudizio negativo converge e combacia per entrambi i punti di vista, a conferma che il nostro Principale (rubo il simpatico termine a Carmelo Scaffidi che, da buon dipendente, si è messo al servizio del suo, cioè del nostro Padrone), non fa mai le cose in modo disordinato e contradditorio, e ha destinato semmai alla nostra alimentazione tutti i cibi che ci fanno bene e che nel contempo sono giusti, pacifici, privi di contenuto eticamente discordante.

Dal punto di vista etico, anche qui siamo di fronte a una notevole forma di sfruttamento. Pensa a questi animaletti che lavorano da mattina a sera a caricarsi del polline dei fiori in primavera, e di acqua nel periodo caldo, per portarlo pazientemente a casa alla propria regina. Per poi vedersi alla fine spaventati e cacciati via da un omone mascherato e blindato, che ti ruba il tutto e ti disfa il lavoro di una stagione intera.

Ma almeno qui non ci sono i drammi del mattatoio, e possiamo parlare di una maleducazione e di una soperchieria tutto sommato non gravissima.

Lo stesso Pitagora, e tutti gli antichi di Grecia e di Roma, incluso i vegetariani di allora, che erano in stragrande maggioranza,  se ne cibavano regolarmente.

Devi pensare che il miele era, assieme alla manna, l’unico dolcificante dei tempi antichi, dato che la utilizzazione intensiva della barbabietola e della canna da zucchero ebbe inizio con la rivoluzione industriale di metà Ottocento.

 

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Se possiamo comprendere e scusare gli antichi, non è detto che dobbiamo farlo con noi stessi, dotati come siamo di maggiori conoscenze e di maggiori risorse.

Noi possiamo infatti contare su una conoscenza scientifica alimentare assai più avanzata, anche se poi la popolazione mondiale continua ad essere ostaggio di alcuni poteri malefici e malandrini che la vogliono mantenere nell’analfabetismo alimentare.

Oggi noi sappiamo che il miele, non cotto e non lavorato industrialmente, è una sostanza integra, ricca, dotata di molti micronutrienti, per cui è di sicuro migliore e meno dannoso di quel veleno dopante e micidiale, che si vende purtroppo senza prescrizione medica, che si ritrova poi in mille bevande e prodotti camuffati che lo contengono in abbondanza, e che si chiama zucchero. 

Ma sappiamo anche che il miele ha qualità antibiotiche, stimolanti e dopanti, che non si addicono affatto alle reali esigenze umane.

Soprattutto se esistono alternative migliori, in termini di una alimentazione globale razionale, capace di darti tutti gli zuccheri che vuoi senza ricorrere a un non-cibo umano che il Creatore ha destinato alle api e solo alle api.

D’accordo che anche il plantigrado orso va ghiotto per il miele. Ma quello è ancora più giustificato di Pitagora e compagni. Nei boschi che frequenta ci sono troppe conifere e pochi ciliegi e pochi fichi, troppe latifoglie e niente banani o palme da dattero, e d’inverno, quando c’è solo freddo e neve, non ha alcun negozio dove andare a far la spesa.

A livello di prestazioni sportive (forse anche sessuali e intellettuali) il miele è in grado sicuramente di darti la carica extra per battere un ipotetico avversario.

Se prendiamo 2 ciclisti A e B, per ipotesi identici in tutto e per tutto nel grado di allenamento, di salute, di mezzo meccanico, e dipendenti solo ed esclusivamente dalla dieta, e diamo a entrambi la stessa alimentazione, ma aggiungiamo mezzo bicchiere di miele al solo atleta A, quello taglierà il traguardo 10 metri prima di B. Lo farà per alcune gare, ma solo a patto che la dose aumenti a un bicchiere e poi a 2 bicchieri. E la tendenza vincente si infrangerà non appena giungerà l’inevitabile momento di saturazione e di non rispondenza.

Alla lunga, il vero trionfatore sarà B, i cui organi non hanno avuto sollecitazioni e drogature di sorta.

 

La scuola dell’amore per gli animali

 

Venendo al problema dell’amore, fai bene ad amare te stessa, le tue bambine e tuo marito, e le persone care che conosci. Guai se così non fosse. Ma la tua indifferenza per gli animali mi preoccupa davvero.

Devo comunque farti dei complimenti ancora. 

I tuoi messaggi, precisi e veritieri, colgono sempre nel segno. Hai una dote che molti non hanno, ed è quella della sincerità e della trasparenza. 

Non ti nascondi dietro la famosa foglia di fico, e confessi candidamente il tuo difetto, il tuo limite.

Non tutti sono disposti ad ammettere che sono vegetariani e salutisti per sola vanità personale ed egoistica, e non certo per amore verso la gallina, l’anatra, il porcellino o il Dolce Pio Bove del Carducci.

Aggiungi che ti mancano le basi e la cultura.

Non fartene un cruccio, rientri nella media della gente in questo.

La popolazione mondiale fa un poderoso e incredibile lavoro di rimozione continua, a livello mentale, psicologico e spirituale, aiutata in questo dalle mefistofeliche industrie che si ingrassano sul sangue delle bestiole, e che usano ogni mezzo mediatico per normalizzare il crimine, per renderlo popolare, accettabile, inevitabile, fatale, salubre, virtuoso, benedetto, legale ed addirittura obbligatorio.

Gli animali non li vediamo mai da vivi. Quasi non esistono nemmeno, se escludiamo il cane e il gatto e il canarino.

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Vediamo invece dei salumi, avvolti in eleganti confezioni colorate, o dei prosciutti, o dei brandelli di cadavere sottovuoto.

Tutto quello che succede prima, per trasformare delle creature pensanti, guardanti, senzienti, speranti, dotate di intelletto, di madre e padre, di cuore e sangue, di sistema immunitario, di intelligenza e di anima, 

alla stessa nostra maniera, viene glissato, schivato, camuffato.

Come a dire che le salsicce e i prosciutti nascono naturalmente dagli alberi delle salsicce e dagli alberi del prosciutto. Come a dire che i tonni massacrati a Mazara del Vallo e i delfini sgominati alle Isole Feroe, sono contenti di finire nelle orride scatolette dove, teneri-teneri, si possono tagliare con un grissino. 

Ti manca la scuola.

Capirai, sai quanti esami ho dovuto superare per arrivare a quello che tu definisci il mio livello.

Ti posso assicurare che c’è al mondo un milione di macelli, ma nessuna scuola per l’amore verso gli animali.

Alla fine, sono proprio i macelli, paradossalmente, la migliore scuola.

Solo che oggi non te li fanno vedere.

Trasmissioni televisive disgustose, tanto luride e farabutte quanto popolari, come  Gusto e  La Prova del Cuoco, ti fanno vedere i brandelli di cadavere, i pezzi cimiteriali, tirati via da mini-obitori chiamati frigoriferi, che saltano in padella assieme ad abbondanti ingredienti naturali indispensabili a coprire in parte il sapore di morte che essi inevitabilmente diffondono.

Ma non ti portano mai il vitellino, e non ti sgozzano mai il porcellino in diretta.

Questo no, spaventerebbe la gente.

Trasformerebbe gli animalisti cinofili e gattofili in animalisti veri. 

E questo sarebbe oltremodo pericoloso.

Gli animali? E chi li conosce? Chi li ha mai visti? I macelli? E dove stanno mai?

E’ successo pure con gli schiavi. Nessuno sapeva e nessuno vedeva. Ma esistevano. 

 

Il genocidio cambogiano e la visita ai campi della morte 20-21

 

Succede purtroppo anche con gli uomini normali.

Pensa un po’ al massacro di un terzo dell’intera popolazione di un paese come la Cambogia.

Popolazione bella, colta, intelligente, almeno al pari della nostra di Udine e Bologna.

Il mondo intero lo ha saputo, ha speso due minuti a leggere la notizia, a seguire qualche immagine scioccante in televisione, per poi voltare pagina e dimenticarsene.

Non mi riguarda. Non posso farci niente. E’ successo in terre remote e lontane.

Ma hanno ragionato allo stesso modo anche in Thailandia, Laos e Vietnam, che erano a due passi.

Vita normale o quasi, aspre battaglie tra Vietcong e Marines, bombardamenti e anche diverse scene strazianti, ma tutto nei limiti della logica e della normalità. 

L’inferno vero e inenarrabile stava appena oltre il confine, e non toccava nessuno.

Una faccenda interna a quel paese, e che dunque non li riguardava.

Da una parte il tran-tran quotidiano, il mercato, la gente che mangia, beve, fa l’amore, si alza e va a dormire, dall’altra il genocidio, con gentaglia che stupra, sbudella e sotterra.

Il 15 Novembre dello scorso anno ho visitato di persona uno dei tanti campi di morte, uno dei tanti ancora nascosti e ignorati  Killing Fields, che costellano quel disgraziato paese.

Vedere le cose dal vivo serve, eccome, te l’assicuro.

 

 

 

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Andare sul posto è totalmente diverso che leggere un libro

 

Respirare l’aria del posto, sentire i rumori dell’acqua che scorre vicino, gli uccellini che cinguettano  tra le fronde, camminare sulla stessa erba, toccare le cortecce di quegli alberi che hanno visto e sentito tutto, è totalmente diverso che leggere un giornale o un libro.

Se vuoi sapere cosa significa essere sconvolti e annientati, devi andare lì. 

Devi prendere un risciò motorizzato e fare lo stesso identico percorso che faceva questa gente terrorizzata, con bambini che si stringevano al corpo della mamma in lacrime, con uomini che scuotevano la testa increduli di essere davvero lì a vivere quella esperienza allucinante e abominevole, eppure vera e autentica,

prede di bestie umane dagli occhi di ghiaccio e dal sangue che gli colava ai lati della bocca.

Il percorso, a quel tempo, era contrassegnato da file interminabili di bandiere rosse in entrambi i lati della strada. Oggi nulla è cambiato, e sventolano tuttora beffarde le bandiere del Partito del Popolo, che include tutti gli autori del genocidio, escluso Pol Pot, morto di cancro nella foresta, ed escluso Cheung Ek, unico arrestato e sotto processo per genocidio, essendo egli stato riconosciuto come il giudice che emanava le ultrarapide e sommarie sentenze di morte.

Basti pensare che la moglie dell’attuale primo ministro Heng Samrin è niente altro che la sorella di Pol Pot. 

Intervistata di recente sull’argomento, la donna si è lamentata della persecuzione psicologica che si sta ingiustamente facendo contro la memoria di suo fratello, visto che ogni accadimento avvenuto in Cambogia è stato fatto per il bene e per l’interesse dell’intera nazione.

 

Dopo 30 anni tutto è rimasto uguale, come fosse successo ieri

 

Sono passati 30 anni, ma tutto è rimasto lì come fosse successo ieri, con le ossa e i brandelli dei poveri vestiti scolorati che spuntano dalle zolle assieme alle ossa  dei martirizzati.

Lo stato cambogiano ha solo raso al suolo le due baracche dove erano depositati gli arnesi di morte, le canne appuntite e i coltellacci con cui infilzavano e poi decapitavano donne e uomini, bambine e ragazzi dai 2 ai 20 anni, ricchi e poveri, anziani e infermi.

Nella capanna attrezzi c’erano pure fucili e mitraglie, ma le cartucce scarseggiavano, e avrebbero potuto servire contro qualche nemico armato.

Pertanto, contro la propria gente inerme e spaventata, era uno spreco inutile il classico colpo alla nuca.

Nella seconda baracca c’erano invece i depositi di calce e di prodotti chimici, da versarsi sui cadaveri scaraventati nelle centinaia di fosse comuni che compongono la vasta spianata del terrore.

Il puzzo di cadavere doveva essere infatti atroce e insopportabile, anche per gente priva di sensi e di ragione come gli scuoiatori del campo.

Fino al 2005, c’erano ancora in esposizione i due camion che servirono per trasportare la gente in questo pauroso e angosciante angolo di mondo, chiamato Campo Numero 20-21, che si trova appena 30 chilometri a sud della capitale Phnom Phen. Li hanno rimossi perché facevano impressione ancora più dei teschi accatastati sulla torre centrale del campo santo-maledetto.

 

Tre viaggi al giorno per 2 camion e libertà di violentare le vittime come cottimo per i boia

 

Caricavano gli sventurati presso le ex-scuole cittadine, trasformate in aree di raccolta prigionieri, riempivano il camion all’inverosimile con 200 persone per viaggio, destinate a diventare in un paio d’ore massa informe di carne maciullata e dilaniata, utile a fertilizzare quelle buche scavate in precedenza dai loro aguzzini, che erano pagati per una attività precisa e ritmata, come scavare la terra di mattina, fare la siesta all’ombra nel pomeriggio, stuprare e sgozzare le vittime al calar del sole. 

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Tutto avveniva al buio e alla luce delle torce, così  si risparmiava qualche imbarazzo di troppo, e non serviva guardarsi troppo negli occhi. 

Il rapporto vittima-boia era più approssimativo e a tasto.

Bastava tirarne giù un paio alla volta dal camion, verificare peso, età e sesso, e passarlo al reparto appropriato.

Sgozzamento e infilzamento immediato per alcuni, i più fortunati. 

Spogliazione rapida, stupro di gruppo e decapitazione finale per le donne potabili e per gli adolescenti di entrambi i sessi.

C’è persino un albero obliquo che era riservato alla tortura prolungata fino al giorno dopo per i giovani più vivaci e reattivi.

Ai carnefici non bastava stare lì con le canne e le scimitarre in mano, ad attendere l’arrivo dei martiri e compiere la loro missione infernale.

Volevano pure la loro parte.

Come si fa a lasciar perdere un‘occasione del genere.

Mica tutti i giorni capitano sotto tiro delle vittime inermi, nude, che nessuno al mondo può ormai difendere, capaci di eccitarti ancora di più con le loro grida di disperazione.

Abbruttiti e drogati com’erano volevano aggiungere divertimento allo strazio.

Tanto che fa? Dovevano morire lo stesso.

Un macello in piena regola.

E, nella torre centrale, circondata tutto intorno da centinaia di maxi-fosse comuni rettangolari, fanno oggi sfoggio 3 piani ricolmi di teschi, mentre nel piano più basso stanno i vestiti di donne e bambini, nonché i vari oggetti personali, tipo occhiali, diari, bambole, automobiline, borsettine, e tanti biberon.

Le fosse circostanti non sono tutte uguali in fatto di contenuto.

In alcune spuntano ossa e vestiti, in altre solo ossa.

Si tratta  delle fosse dei bambini e degli adolescenti, e delle loro mamme denudate e violentate prima della esecuzione.

 

Il perfido meccanismo dei prelevamenti e delle condanne

 

Intere famiglie setacciate e portate brutalmente al raduno. Due minuti per famiglia riservati alla pubblica 

accusa e il gioco era fatto.

Diversi giornalisti americani ed australiani si trovarono nel punto sbagliato e nel momento sbagliato, e fecero la stessa fine, come si vede dal muro commemorativo ad alcune delle vittime rintracciate e riconosciute.

Bastava che una persona avesse avuto qualche lontano legame o anche qualche simpatia per il precedente regime, o che avesse posseduto in casa dei libri e delle penne, o anche solo degli occhiali da vista, e la condanna era inevitabile, per lei e per tutti i familiari, in quanto non si dovevano lasciare tracce e testimonianze, sennò che genocidio del cavolo era.

Il motto era quello di far fuori i corrotti e gli intellettuali, e con loro le intere cerchie dei parenti stretti.

Ma i campi di concentramento erano sguarniti e disorganizzati, non c’era neanche del pane, del riso, dell’acqua per gli arrestati. Si doveva dunque fare presto.

Alla gente disperata e urlante, ma priva ormai di voce e di forza per i patimenti e gli spaventi dell’arresto, coi bambini che chiedevano impossibili spiegazioni e continuavano a frignare, veniva detto che in serata li avrebbero portati oltre confine. 

Infatti era vero, li portavano oltre il confine, oltre il confine della vita.

Quei due camion lavoravano indefessi a pieno ritmo. 

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Tre viaggi per notte, 200 corpi cadauno, facevano un bel prodotto di 1400 cadaveri a giorno.

Sempre una inezia, rispetto alle esigenze. 

 

Non è facile sgominare mezzo paese, mezza nazione, nel giro di poche settimane.

Il Partito del Popolo li ha ammazzati, e il Partito del Popolo ci guadagna pure sopra.

 

Per fortuna che c’erano molti altri campi in giro, dove non mancavano altri solerti proletari del crimine.

Mica è facile sgominare mezzo paese nel giro di poche settimane.

Il campo 20-21 è solo un frammento della immane tragedia.

Qui le persone assassinate nei modi sopra descritti sono soltanto diverse decine di migliaia.

Per far quadrare il bilancio e metter vicino tutti quegli abitanti che mancano tuttora alla conta, occorre immaginare centinaia di altre fosse comuni non ancora rivelate alla gente, non aperte al pubblico.

Il campo 20-21 è stato aperto per due motivi.

Primo perché, essendo alle porte della capitale, non c’era modo di nasconderlo.

Secondo perché il turismo ha le sue esigenze, e nel menù macabro degli alberghi e dei conduttori di carrozzine a motore, non manca mai il classico itinerario dei campi di morte, dove si paga un salato ingresso.

Il Partito del Popolo li ha ammazzati, e il Partito del Popolo ci guadagna pure sopra, facendo rivoltare e scricchiolare dalla nausea spirituale gli scheletri delle fosse.

Si parla in tutto di 3 milioni di persone scomparse, 3 milioni di omicidi commessi nei modi e nelle circostanze più inenarrabili da cambogiani contro altri cambogiani.

Gli assassini, i boia, sono tutti in libera circolazione, di sicuro nei posti chiave dell’amministrazione.

L’unico che sta facendo la prigione, in attesa di processo, è proprio Cheung Ek, il torturatore più feroce e sanguinario della storia moderna, che fece da giudice sommario e inappellabile a tutti gli ospiti sotterrati nei campi 20-21 e in diverse altre destinazioni segrete, il quale continua tra l’altro a proclamarsi innocente.

Innocente perché lo ha sì fatto, ma era costretto a farlo, altrimenti, nei Killing Fields, sarebbe finito lui e tutti i suoi famigliari.

Il mio accompagnatore, di nome Rudi, mi ha detto che una delle belve sanguinarie dei campi 20-21 finite in prigione dopo i massacri, è stato ben presto liberato, si è rifatto una vita, ha messo al mondo 9 figli, e passeggia tranquillamente per Phnom Penh come se niente mai fosse avvenuto.

 

Siamo forse andati fuori tema? Niente affatto. Abbiamo toccato invece il nucleo della questione.

Noi tutti, la Cambogia e i Pol Pot ce li abbiamo sotto casa o nei dintorni.

 

Ti assicuro cara Antonella che sono stato male per due settimane, e che tuttora, a un anno di distanza, non riesco a togliermi di dosso quello che ho visto.

Sopra le fosse, nidiate di pulcini e di anatroccoli beccano innocentemente la terra ricca di humus umano, e lungo i viottoli del campo ci sono dei tavolini rustici con depositati ossicini e denti dei malcapitati ospiti, che alcuni turisti irrispettosamente intascano e portano con sé come souvenir della Cambogia dei Khmer Rossi.

Ci voglio tornare da quelle parti, anche se Rudi mi ha invitato a dimenticare quello che ho visto, ed anche a non fare troppe domande, perché da queste parti (me l’ha fatto capire con un gesto chiarissimo) i coltelli sulla gola, tagliano tuttora.

Tu a questo punto mi chiederai cosa c’entra tutto questo con l’amore per gli animali.

Allora sì che ti accuso di non aver capito niente.

Non siamo andati per niente fuori tema.

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La gente cambogiana ammazzata in quel modo non era gente, non erano nemmeno animali. Erano sotto-animali spaventati a morte, tirati via da oggi a domani dalla loro casa, assieme a tutti i loro cari, messi sul carro bestiame, torturati dal primo all’ultimo istante, e poi massacrati.

Quando si dice di qualcuno maltrattato oltre misura, si dice che lo hanno ammazzato come un cane.

Trova tu l’espressione per descrivere quanto sopra.

La realtà è che la Cambogia e i Pol Pot ce li abbiamo sotto casa e nei dintorni.

 

Non è l’oggetto del massacro che qualifica la cattiveria, ma i modi e le circostanze

 

Non è l’oggetto del massacro che qualifica la bruttura e la cattiveria, ma l’atto in sé, le motivazioni, le circostanze. 

La cattiveria non è tale perché a subirla erano degli esseri umani, ma per la efferatezza e la pianificazione del crimine, per le fosse scavate in anticipo e per le torture aggiuntive inflitte.

In termini legali si chiamano circostanze aggravanti.

Poco importa in questa ottica se la vittima è un uomo difeso da avvocati, o se è un uomo giudicato sotto-animale da un boia come Cheung Ek, o se è un animale quadrupede anonimo che porta una targhetta con le date di nascita e di futura macellazione.

Il fatto che Cheung Ek si proclami innocente può scandalizzare. 

Ma, in effetti, anche lui era preda della pazzia collettiva, e probabilmente è vero che si erano innestati meccanismi perversi di ritorsione su chi non si comportava da tiranno e da persecutore inflessibile.

Solo Dio è in grado di giudicare quanto male questa gente ha fatto agli altri e a sé stessa.

Ma i Pol Pot di casa nostra non hanno nemmeno quell’alibi, quel misero e inconsistente pretesto.

Moralmente, sono peggio di Cheung Ek, in quanto nessuno li costringe a farlo, se non la motivazione venale dei soldi. 

Politicamente, sono peggio di Cheung Ek, il quale lo faceva per il suo abominevole e folle disegno comunista di eliminare la classe intellettuale, di cambiare il paese radicalmente, mentre loro lo fanno solo per la motivazione del tornaconto economico.

 

Valdo Vaccaro – Direzione Tecnica AVA-Roma (Associazione Vegetariana Animalista9

                           Direzione Tecnica ABIN-Bergamo (Associazione Bergamasca Igiene Naturale)

 

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